Testo scritto in occasione della "Maratona Verde" no-stop video di 24 ore realizzata a SPAM! il 27 e 28 nov.2010

TeleArti. L’opera di Giacomo Verde, “artivista tecnologico”

di Marco Maria Gazzano

Un artista, indubbiamente. Uno tra i maggiori artisti europei nel panorama di quello scavalcamento dei confini tra le arti e i linguaggi, le tecniche e i media che ha caratterizzato, a volte con esiti espressivamente eccellenti come in questo caso, la “fine Millennio” che abbiamo attraversato (che stiamo ancora attraversando) – con consapevolezza, ma senza farci mancare la leggerezza e a volte anche l’ironia – anche grazie ad autori come Giacomo Verde.

Artista capace di «liberare arti da artisti», come scrive nel distico pubblicato nel suo sito web (www.verdegiac.org); dichiarando anzitutto così di voler tenere un “basso profilo”, di non prendersi troppo sul serio né di prendere troppo sul serio i risultati di un lavoro che, al contrario, fin dagli anni Ottanta del ‘900 è serissimo, sempre estremamente professionale, curato fino all’estremo e fin nei più minuti dettagli, ricco di innovazioni espressive e comunicative quanto di riflessioni teoriche e politiche (cioè etiche) tanto precise e pertinenti quanto poco frequentate nel mondo artistico dell’effimero e del sensorialistico immerso nelle nuove tecnologie elettroniche.

Un artista capace, inoltre, di ribadire chiaramente, in un verso poetico (mutuato da uno analogo di Lello Voce) che per un artista (e lo dovrebbe essere anche per un critico) importante non è definirsi, collocarsi, riconoscersi uno status nel sistema istituzionale delle arti (delle scienze o delle teorie) ma liberarsi: liberare arti, liberare linguaggi, idee, scavalcare confini, esplorare mondi nuovi, incoraggiare utopie, aiutare a vedere e ascoltare e comunicare oltre.

È il miglior servizio che un artista possa fare allo spettatore, al pubblico e forse all’Umanità: ma la sola condizione per farlo è di essere consapevole – fortemente consapevole – di quella che è una dimensione etica inscindibilmente connessa con quella estetica; non credersi mai né il sale della terra né il depositario di una qualche verità da porgere agli altri.

Molti artisti abbagliati dai riflettori della società dello spettacolo (e tanti più critici e studiosi) sono caduti, tra gli anni Novanta e gli anni Zero del 2000, nella trappola (mortale) nella rinuncia all’umiltà. Giacomo Verde no. Forse perché ha – da sempre – considerato le sue opere (video, teatrali, mediatiche, pittoriche, performative) non depositarie dell’aura dell’Opera ma “cartoline”, “messaggi”, tratti di pennello elettronico, gesti, atti, “videosegni”: significativi, certo, ma «senza dovere di cronaca». Oppure perché ha sempre tenuto ben presente, ben sapendo di essere un autore – cioè un cittadino consapevole – immerso nella videosfera mediatica alla fine del secondo Millennio – la lezione, illuminante, del Brecht de L’eccezione e la regola: «di nulla sia detto è naturale, di tutto si dica può cambiare»1.

E, tuttavia, conscio fin dai primi anni Novanta – ma in realtà fin da Fine fine millennio (1984), sua prima importante formalizzazione teorico/video artistica così densa di significati eppur così leggera nella forma: una caratteristica costante nello “stile” di Giacomo Verde – «della drammatica insufficienza delle pratiche artistiche e critiche tradizionali»; così come dell’altra altrettanto decisiva consapevolezza – la quale «nell’orizzonte della modernità che si sta ridefinendo» ha mosso gli artisti maggiori di fine Novecento dalle seconde avanguardie alle arti elettroniche e intermediali – relativa alla nozione di “flusso”, di liquidità, di sfuggevolezza dei segni oltre che di un corpo «disseminato, dislocato, smaterializzato, trasformato»2, le opere di Giacomo Verde sono vere e proprie, autentiche “opere”.

Almeno quanto egli è un autentico “artista”, plastico e anche tecnologico, teatrante e anche compositore, poeta e anche cineasta. Con le maiuscole.

Perché, come ricordava Roland Barthes nelle sue lezioni del 1978/1980 al Collége de France3, anche se la letteratura ( e intendeva ogni forma di arte e di Scrittura) «sta per morire» ( e intendeva: «è un dossier ancora da completare»), è precisamente una certa qualità quella che occorre a un autore per essere detto tale. Nel “flusso”, quello di sfidare il flusso, potremmo dire. O, con le parole di Barthes ai suoi dotti (sedotti?) ascoltatori: «Lo scritto si produce in un flusso ideologico (del mondo), che non si ha il coraggio di bloccare; ora l’Opera (e la Scrittura che ne è la mediazione) è precisamente il coraggio di bloccare; è ciò che arresta l’a ruota libera». Ed è questo coraggio che a Giacomo Verde non manca.

Il coraggio di firmare opere – di pochi istanti quanto di molti minuti nel caso delle videografie; ma anche quadri, disegni, performance, azioni “hacker”, progetti di televisione democratica diffusa e accessibile – attraversando “generi” e confini, specificità presunte e luoghi comuni consolidati. Incrinandoli. Aiutandoci a metterli in discussione. Come il confine tra videoarte, teatro e televisione, a esempio, che Giacomo Verde ha reso mobile sia espressivamente che comunicativamente fin, dalle pioneristiche esperienze di videoteatrante negli anni Ottanta. O quello tra la plasticità e la musicalità, un altro dei tratti significativi dello “stile” Verde, coniugato sempre con la cura certosina – sia della dimensione estetica che di quella tecnica – della sue immagini nuove e translinguistiche.

Se Stati d’animo (1990) è una delle migliori opere videoartistiche italiane degli anni Ottanta, il Progetto Tele-Racconto è la suite performativa che ha emozionato la critica più attenta negli anni Novanta: perché capace di recuperare con leggerezza espositiva addirittura l’antica ispirazione (risalente alla Retorica e ad Aristotele) dell’Arte (Techne) come insegnabile: delle sue tecniche di espressione manifestabili come parole o segni necessari per ottenere determinati effetti e i suoi codici espressivi dis-velabili anche a un pubblico di bambini: a partire dalla Tv, dal teatro e da una “videoarte” che, come all’alba delle arti elettroniche, si pone fuori dalle gallerie d’arte e altri luoghi istituzionali. Se SO…propaganda Eutopica n. 01 (2007) è il più impressionante detournément straniante delle immagini dell’Olocausto, rivisitato con Pasolini, che ci sia stato proposto, la Minimal Tv è il più rigoroso progetto di Telestreet che abbiamo avuto in Italia dopo il 2000.

Tuttavia, all’interno delle dieci e più ore di un autore anche molto prolifico quale Giacomo Verde è (decine e decine di titoli dagli anni Ottanta a oggi) un cenno meritano anche i suoi “documentari” “creativi”. Tra le virgolette i due termini: perché questa serie di opere è tanto documentaria (parla della realtà: dal disagio mentale alla condizione carceraria agli omicidi di Stato in Italia dagli anni Settanta al G8 di Genova) quanto creativa: non rinuncia cioè né a proporre un punto di vista d’autore (sia morale che estetico) sui fatti né – appunto – rinuncia all’estetica (trattamento dei colori in chiave espressiva, montaggi asincroni audio-visivi, sovrimpressioni, scarti temporali, inquadrature spurie, ricerca di plasticità dell’immagine, accentuata matericità, e a volte “corporeità” dell’immagine, e via di seguito) in nome di una (sempre presunta, e Verde lo sa bene) “oggettività” dei fatti stessi. È una strada dura, naturalmente, che ha precluso all’artista le vie lastricate di oro e di pubblico delle Televisioni istituzionali (tranne la breve incursione nella RaiSat pioneristica del 1992, chiamato da Mario Sasso, altro grande artista visionario ed eu-topico, allora “impaginatore” artistico della Rete): ma che lo ha progressivamente spostato sul Web in una posizione di libertà creativa e di “audience” potenziale alla quale nessun broadcaster può sperare di ambire.

Ed è una strada che ha insegnato a molti (o potrebbe insegnare) un nuovo modo di intendere il “documentario”. Un modo inaugurato da Paik – cui Verde dedica con WDR Marì (1984) il suo grato omaggio di “virtuale” allievo – ma assai poco frequentato sia in Europa che nelle Americhe. E mai con la radicalità di Giacomo Verde nel raccontare gli eventi – duri, durissimi fatti – con linguaggi audiovisivi, e pittorici e sonori, molto “creativi”: esplorativi, propositivi. È una scelta che produce emozioni: emozioni forti e anche subliminali. È una verifica che ciascuno può fare, anche dolorosamente, sui propri sensi e la propria pelle. Sono opere che scuotono, «che sommuovono il subcosciente che è in noi», come direbbe Pirandello, che provocano «regali della memoria involontaria», come ha scritto Giacomo Debenedetti per Joyce, che suscitano “epifanie” e vere e proprie esplosioni emotive. Una dimostrazione di più che avvicinarsi all’arte, quando l’artista ha qualcosa da dire e sa come dirlo, è pericoloso: perché mette in crisi le nostre coscienze e le nostre certezze oltre alle nostre percezioni.

Anche per questo – “hacker” e non “cracker”, come Giacomo Verde tiene orgogliosamente a precisare – attivista democratico nella rete delle arti e dei linguaggi tecnologici, cercatore di eu-topie (nuovi mondi più felici in cui vivere e lavorare), Giacomo Verde è un artista “impegnato”. Lo è nel senso più alto e nobile del termine, nel senso più anti-ideologico e allo stesso tempo più radicalmente solidale dell’espressione.

Come è stato scritto con grande precisione «Giacomo Verde esprime come pochi, oggi in Italia, le esigenze, le aspirazioni e le contraddizioni di un’arte “civile”, di un’arte cioè che sia capace di ritrovare un legame più diretto e riconoscibile con i movimenti e le trasformazioni che avvengono nella società»4. Un’arte davvero necessaria.

Attraverso la quale, con il suo ottimismo della volontà, questo autore, ci accompagna per esorcizzare – almeno – la cupa verità disegnata da Klee e descritta da Benjamin nelle Tesi sulla storia5 (evocate in Messaggio per l’angelo della storia, 2002). Come quell’angelo, che ha lo sguardo perennemente rivolto al passato, del quale non vede che rovine, anche noi siamo tuttavia spinti inesorabilmente verso il futuro dal vento impetuoso del progresso.

Questa doppia inquietudine è quella che Giacomo Verde ci aiuta a sfidare: sfidando la gassosità vorticosa del contemporaneo; non rinunciando, anzi radicalizzando, i linguaggi, le strutture comunicative e i modelli culturali del contemporaneo. Magari “strizzandoli”, come fa da sempre nella sua esplorazione quotidiana del “fare” creativo tra video, tele-visione, Rete e altre trame.

Marco Maria Gazzano
Docente di Cinema, arti elettroniche e intermediali
all’Università degli Studi Roma Tre

novembre 2010

1 Distico a Per un teatro tekno.logico vivente di Giacomo Verde; in A. M. Monteverdi (a cura di), La maschera volubile, Titivillius, Corazzano 2000.

2 Dal manifesto Per una nuova cartografia del reale, firmato a Milano alla Fondazione Mudima di Gino Di Maggio il 14 gennaio 1993 da Giacomo Verde, Studio Azzurro, Giovanotti Mondani Meccanici, Mario Canali, altri artisti e critici.

3 Ora in Roland Barthes, La preparazione del romanzo, a cura di Emiliana Galiani e Julia Ponzio, Mimesis, Milano 2010; testi da considerarsi integrativi del più noto saggio Il piacere del testo (1973), Einaudi, Torino 1975.

4 Cfr., Antonio Caronia, Arte, artisti, liberazione, prefazione a Giacomo Verde, Artivismo tecnologico, BFS - Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2007

5 Walter Benjamin, Tesi sulla storia (1939), in Angelus Novus, Einaudi, Torino 2006




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